L’intercettazione in carcere
E’ risaputo che la moglie Marita Comi incalzò inizialmente in carcere il marito Massimo Bossetti, provocandolo ripetutamente e esortandolo a dirgli dove fosse stato quella sera.
Arrivò persino a dire che non ricordava esattamente a che ora fosse tornato a casa quella sera ma sicuramente “più tardi del solito”.
Ovviamente non avrebbe mai potuto Marita ricordare un evento così banale (un rientro a casa in ritardo) di una sera “qualunque” risalente a oltre 3 anni prima.
Ciò che in realtà accadde è che Marita “finse” di ricordare quel ritardo al fine di spingere il marito Massimo a confessare. Volle giustamente mettere in difficoltà il marito per capire se fosse davvero lui l’assassino.
Lo fece perché anche Marita (come tutto il popolo italiano) fu inizialmente ingannata e suggestionata dal “falso filmato” del “falso furgone” che si aggirava intorno alla palestra in cerca della vittima e, credendo fosse un filmato vero e credendo che il furgone fosse davvero quello di suo marito, inizialmente ebbe come tutti qualche sospetto.
Sospetto che durò pochissimo perché l’innocenza del marito era tanto vera quanto convincente e quel famoso colloquio in carcere (successivamente strumentalizzato dall’accusa), nonché tutto ciò che solo successivamente si è saputo (compresa l’infondatezza del video del furgone) la aiutò a sciogliere ogni dubbio sull’innocenza di Massimo.
Inoltre è molto importante ricordare che nei giorni di lavoro quotidiani, il sig. Bossetti faceva rientro a casa sempre prima delle ore 18.30 e che Marita disse negli interrogatori che mai il marito è rientrato a casa senza avvisare dopo le 19.30 (orari di rientro entrambi poco compatibili con la dinamica del crimine).
Infatti, quel pomeriggio del 26 novembre 2010, lui non andò al lavoro e la cella telefonica “Mapello 3” lo colloca già a casa nel pomeriggio, luogo dal quale non si spostò mai perché il suo telefono (mai spento, come certificato dalla Vodafone, e mai utilizzato in serata) non ha agganciato altra cella che quella.
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